Qualche (grato) ricordo di amici incontrati, ops, di vini assaggiati all'ultimo Vinitaly:
1) Quattro passi nel rosè. Facile e immediato il “Rosé del Cristo 2015”, di Cavicchioli, Lambrusco di Sorbara fermentato in bottiglia, color buccia di cipolla, è il complemento ideale di una pausa a base di chiacchiere, pane e salame. Succoso, sapido, fruttato, coerente al naso e in bocca con una bel finale secco il “Kotzner Merlot Krezer 2016” di Armin Kobler. Elegante al naso e in bocca “Aprile” della siciliana Fondo Antico, Nero d'Avola trasformato in fresca macedonia di chicchi di melograno e fruttini selvatici aciduli e dolci.
2) Interscambiabili, o quasi. Come quei gemelli identici che a scuola si scambiano di posto per strappare voti migliori nella materia in cui ciascuno eccelle, così il Tai Rosso con il Cannonau: facile rimanere ingannati da quella golosa fragolina di bosco che diresti Tai Rosso e invece è Cannonau alle sue prime fasi, così come pensi che sia Cannonau quel vino dalle note di erbe mediterranee e spezie e invece è un Tai Rosso Riserva. La degustazione (alla cieca) con il trucco dei vini di Nicola Dal Maso e della piccola, laboriosa Fattoria di Michele Cuscusa ha imbrogliato molti e divertito tutti.
3) L’enologia che verrà. Tutti parlano di cambiamento climatico, di vigneti che dovranno arrampicarsi sempre più in alto e vitigni che dovranno essere inattaccabili o quasi dalle malattie, ma pochi hanno già iniziato a fare sul serio. Gianni Tessari è uno di questi: non appena la varietà solaris è stata autorizzata in Provincia di Verona, lui l'ha piantata sulle colline di S.Giovanni Ilarione (2014). Innovativo che non rinnega la sua storia enologica, Gianni ha utilizzato per questo solaris in purezza quella fermentazione sulle bucce che aveva fatto la fortuna e il successo di un altro (suo) vino, il famoso "Bucciato" Veneto Bianco. E anziché utilizzare i lieviti selezionati come negli altri suoi vini, ha usato quelli indigeni. Il risultato è “Rebellis”, un bianco dalle spalle larghe con performance da vino rosso: tropicale al naso e in bocca, con sentori di mandorle e zafferano, tannico in bocca, rotondo e pieno.
4) Echi (campani) dal passato. I Romani erano maestri nell’arte dell’appassimento delle uve, e lo praticavano un po’ ovunque piantavano vigne, non solo nel Veronese dunque. Così può capitare che uno dei primi esempi di vino da uve appassite non dolce sia stato campano e infatti di un vino kapnios (affumicato) parlavano già Platone e Plinio il Vecchio. Il “Kapnios” dei nostri giorni è perciò un aglianico del Taburno di Masseria Frattasi raccolto a mano tardivamente (metà di novembre) e lasciato appassire per una trentina di giorni all’aperto. Il risultato è un vino molto piacevole, con tannini di seta grezza, di bella struttura, ricco di profumi mentolati e balsamici al naso e in bocca cui seguono note di uva passa e fruttini di rovo.
5) La Toscana che non tradisce. Chi, come me, predilige i passiti (soprattutto quelli dolci) pretende anche sempre il massimo da loro. Il passito dolce è uno dei vini più difficili da fare, ma nessuno obbliga un produttore a farlo, se non è capace e non lo ama. Per chi invece volesse avvicinarsi a questa tipologia, il Vinsanto di Montepulciano di Susanna Crociani ha molto da dire, in termini di eleganza, equilibrio, armonia tra le parti: noci e nocciole, prugne appassite, fichi secchi, buccia di arancia candita, caramello e molto altro. E in bocca è un velluto. Gran finale con i vini de Il Marroneto, che produce uno dei pochissimi Brunello di Montalcino davvero all’altezza della sua fama (mondiale): il “Madonna delle Grazie”. Fruttato (rosso e nero) e speziato (dolce, un tocco), pieno, equilibrato, elegante, pulito, appagante come pochi. Più che un Brunello di Montalcino, una garanzia di buon bere.
Proprio quando iniziavo a divertirmi con gli assaggi, Vinitaly ha chiuso i battenti. Arrivederci al prossimo, in programma dal 7 al 10 aprile 2019.