"Sto pensando di fare un nuovo vino. Le uve sono bellissime, e penso che si affinerebbero bene in quelle botticelle francesi, sai ... Ho in mente un vino rosso di quelli che piacciono a me, importante, potente, un vino che dica al mondo tutta la nobiltà di questa terra e dei suoi proprietari". Così Giacomo il piemontese si confrontava con il suo amico Nino, il veneto, che faceva il suo stesso lavoro ma in un'altra regione. Nino a quelle parole sorrideva divertito e scuoteva la testa: "Stai sbagliando tutto" gli diceva. "Come sarebbe? ! Non pensi che si possa realizzare un vino come intendo io?" "Oh no, di sicuro ci riusciresti. Ma se ti ostini a fare solo vini che piacciono a te, finisce che te li bevi solo tu! Devi fare vini che possano piacere anche alla gente: vini eleganti, ma soprattutto bevibili".
Giacomo non obiettò, e presto il discorso deviò su altri argomenti.
Però continuò a pensare a quello che gli aveva detto l'amico Nino, uno che di vino ne sapeva parecchio.
Alla fine, fece un vino con uve sangiovese e un piccolo apporto di cabernet sauvignon e cabernet franc, una cosa che non si era ancora vista, e infatti non poté etichettarlo come "Chianti" ma solo come vino da tavola. Il vino prese il nome della tenuta da cui venivano quelle uve dei marchesi Antinori.
Era il 1970: era nato il Tignanello.
Nota: il dialogo riportato sopra è una ricostruzione di quello autentico che si svolse alla fine degli anni '60 tra Giacomo Tachis, enologo dei marchesi Antinori, e Nino Franceschetti, l'uomo della Valpolicella, enologo di Masi, così come me lo raccontò lui stesso qualche anno fa. Un piccolo ricordo che vuole essere un omaggio a due mostri sacri - uno famosissimo, l'altro, ingiustamente, molto meno - dell'enologia nazionale che non ci sono più.