Quando si parla della vocazionalità viticola di un'area, sarebbe buona regola chiarire fin da subito a quale periodo storico ci si riferisce. Parliamo del Trentino, per esempio. Oggi è considerato terra di vini bianchi, perfino di spumanti, perchè, obiettivamente, dai primi anni '80 ad oggi la produzione di uve bianche è andata aumentando sempre di più, a scapito di quella delle varietà rosse: nel 2014 furono prodotti 564 mila hl di vini bianchi, contro appena 172 mila di vini rossi (altri dati qui ).
Ma non fu sempre così, anzi. Alla fine dell'800 e ai primi del '900 il Trentino appariva suddiviso in tre aree: a nord dominava il Teroldego, al centro il Merlot, a sud le uve lambrusche: Lambrusco a foglia frastagliata (=Enantio), Lambrusco a foglia tonda (=Casetta), Lambruscone (=Lambrusco a oliva grossa). Sono questi gli autoctoni rossi sopra i quali oggi si può, si deve pensare di costruire l'idea di un Trentino vitivinicolo che non sia solo sinonimo di pinot grigio o chardonnay. A queste uve quasi dimenticate (e semisconosciute persino a molti viticoltori locali) di recente ad Avio è stata dedicata una giornata di approfondimenti (grazie Skywine per l'organizzazione) con il supporto di molti enti, tra i quali la Fondazione E.Mach di S.Michele all'Adige. Gli interventi di studiosi e produttori come Eugenio Rosi (che con i colleghi Dolomitici porta avanti il progetto del quasi centenario vigneto del Perciso) e Albino Armani (il suo Foja Tonda è ormai un premiatissimo benchmark di Casetta in purezza) sono stati densi di contenuti e di interesse: c'è un sacco di roba da dire su questi vitigni, un sacco di lavoro da fare per promuoverli. Vale la pena darsi da fare, perchè i requisiti ci sono: siamo in presenza di due vitigni con tratti unici, non esistono in giro per il mondo altre uve con le loro stesse caratteristiche (nemmeno con nomi diversi).
E' noto che molti degli attuali vitigni coltivati sono frutto di incroci tra varietà, avvenuti nel tempo e nel corso degli innumerevoli viaggi che questa pianta ha fatto al seguito dell'uomo. Studiare l'albero genealogico delle uve, tracciarne il DNA cercando di ricostruire le loro varie parentele è decisamente interessante e a volte non privo di sorprese (chi l'avrebbe detto, per esempio, che il Marzemino è il nonno della Corvina veronese?), ed è quanto fanno i genetisti viticoli: tuttavia, esistono anche dei vitigni che sono rimasti "puri", ancestrali. L'Italia di queste uve ne ha pochissime, e tra queste c'é il Casetta: secondo un'ipotesi ancora da verificare, potrebbe trattarsi del risultato di una domesticazione in loco di viti selvatiche. Fino a metà degli anni '80, come detto, il Trentino produceva moltissime di queste ambrusche - a foglia tonda o frastagliata - , ma poco dopo la situazione s'invertì completamente: la coltivazione di uve rosse crollò, e iniziò la fortuna di quelle bianche. Nel 2002 il Casetta venne addirittura depennato dall'elenco delle varietà, finendo nel calderone indifferenziato del "misto rosso". Divenne un vitigno fantasma di cui si era persa la memoria, e se non fosse stato per la caparbia volontà di Albino Armani di recuperarlo, studiarlo da capo e valorizzarlo, oggi probabilmente sarebbe estinto. Il percorso fatto dal Casetta, dal quasi-oblio all'iscrizione al registro delle varietà, al riconoscimento della DOC TerradeiForti eccetera, ha richiesto un numero di anni spaventoso, e uno sforzo anche economico che un altro produttore, probabilmente, meno romantico e meno cocciutamente attaccato alla sua terra come Albino, avrebbe destinato a impieghi più remunerativi. Ma se alla Giornata delle Ambrusche è stato possibile assaggiare ben 14 microvinificazioni di cloni di Casetta (realizzati da FEM con cui Armani ha sempre lavorato di concerto) il merito è anche di idealisti testardi ed entusiasti come Armani, il ricercatore del FEM (e produttore di Casetta) Tiziano Tomasi e i suoi colleghi. "Son quasi 40 anni che mi occupo del Casetta, ma penso di essere solo a metà del mio percorso: tra 10-15 anni, grazie ai cloni migliorativi, avremo dei vini Casetta anche migliori di oggi" ha detto Albino. E l'obiettivo della degustazione aperta al pubblico era anche quello di capire quali, tra i 14 campioni, presentano le chance organolettiche migliori. Per chi non vuole aspettare tutto questo tempo però, c'è una buona notizia: per quanto poco facile da trovare (sono ancora troppo pochi i produttori che lo fanno), il vino Casetta esiste. E sa invecchiare bene, come ha dimostrato la mini verticale di Majere (2013-2009-2003) di Cadalora, che ha accompagnato senza sgomitare i piatti più familiari della tradizione di montagna (come quelli proposti dal giovane chef della Locanda San Felice).
Il treno degli autoctoni rossi della Vallagarina è partito: passa questa volta, o mai più. Ora tocca ai produttori saltarci sopra. Gli appassionati (di vini da vitigni autentici e territoriali) li stanno già aspettando, alle varie fermate in giro per il mondo.