BRIC (Brasile, Russia, India, Cina), ultima frontiera. Eccovi i viaggi del vino italiano alla scoperta di nuovi mercati, fino ad arrivare la' dove mai nessuna bottiglia è mai giunta prima. O quasi. E la Cina è uno di questi nuovi spazi da conoscere e colonizzare: non c'è quasi azienda (e non solo italiana) che non ci stia provando.
Ma è davvero tutto oro quel che balugina la' in fondo? Ne abbiamo parlato con un capitano di avventure enoiche di lungo corso: Sandro Boscaini, presidente di Masi Agricola, reduce da un riuscito (quanto altamente impegnativo) trentennale del Premio Masi (all'estrema dx nella foto d'apertura con i premiati dell'anno).
“Sono abbastanza scettico - esordisce - Non tanto rispetto al mercato in se', quanto alle aspettative di chi lo affronta. Tanto per cominciare, i cinesi non hanno la cultura del vino; seconda cosa, sono bravissimi a copiare. Io sono convinto che pur essendo un mercato potenzialmente enorme, non avremo mai la fortuna di vederci il vino in maniera diffusa".
Eppure sembra che la piazza sia dominata dal vino francese...
"Certo, ma i cinesi non lo comprano perchè gli piace berlo: comprano la bottiglia, la griffe, lo status symbol. Ho visto le statistiche recenti: anche per i vini italiani l’aumento di esportazioni nell'ultimo anno è stato notevolissimo, ma solo in volume. In valore la media è di 2 euro al litro. E le persone che comprano il vino non appartengono alla fascia con un alto potere d'acquisto; sono un sottomercato fatto un po’ di sfuso, e un po’ di cose fatte da loro..."
... E queste ultime, il più delle volte, altro non sono che un taglio tra vini cileni o spagnoli e vini cinesi, e poi commercializzati come tali. Quindi sconsiglia d'investire in questo paese?
"Per carità, è un mercato in cui è bene esserci. Ma senza nutrire grandi aspettative, nel breve-medio termine almeno, diciamo entro i prossimi 5- 10 anni. Io ho vissuto anche il mercato giapponese: era più o meno la stessa cosa. Ma con un punto a favore dei giapponesi: sono arrivati al vino prima dei cinesi, e hanno un tenore di vita più alto. Nel 1998 c’è stato il boom del vino, sembrava che non potessero più vivere senza: partirono centinaia di container. Dopo più di 10 anni quei container sono ancora là, nel porto".
Perchè? Cos'era successo?
"Era successo che ad un certo punto, complice la crisi economica e un certo cambio nella moda, nelle abitudini della gente, i giapponesi erano tornati a bere le loro cose, come il sakè. Insomma, ci fu un'involuzione. Che tuttora persiste: sono 10 anni che il mercato giapponese è fermo, anzi in leggera flessione. Sono tornati indietro. C’è da dire, però, che il boom del vino era stato anche molto forzato: c’era stata l’esplosione della cucina mediterranea. Solo a Tokyo erano stati aperti più di 2000 ristoranti italiani. Così, nel giro di poco tempo, ho visto chiudersi drasticamente la porta di questo nuovo mercato. Morale: finchè il vino rappresenta uno status symbol lo comprano, quando non lo percepiscono più come tale, o se ne stancano, smettono di comprarlo. Ripeto: in generale, in questi mercarti orientali, la gente non beve vino perchè gli piace".
Questo vale anche per l'India?
"Il mercato indiano è diverso. Ha potenzialità più immediate. Gli indiani sono molto più vicini ai paesi occidentali: parlano inglese, hanno uno stile di vita più anglosassone. Molti indiani vengono a vivere in Europa, ma poi tornano in patria, e portano le abitudini apprese qui. Vivono all’occidentale. I cinesi, quando vengono da noi, fondano le Chinatown, i loro ghetti. Tendono a portarsi qui tutto dalla madrepatria. E' tutta un’altra impostazione di vita. Detto questo, l’India ha purtroppo un grande freno: un sistema di tasse micidiale. Lo è quello centrale, e ancor più quello provinciale. A volte anzi la tassazione provinciale è il doppio di quella centrale. E questo strangola il mercato del vino".
Concludendo, se dovesse scegliere di pontare sulla Cina o sull'India, non avrebbe dubbi...
"Scommetterei di più sul futuro di quest’ultima, certo. Detto questo, c’è da tenere presente che sia Cina che India hanno un forte desiderio: produrre vino in loco. Ne hanno una grandissima voglia. L’ho sperimentato di persona in entrambi i paesi, per questo posso dirlo. Dovremo confrontarci anche con questo fatto".