Ai nostri giorni, fa più notizia un Consorzio che chiude i battenti e cessa la propria attività, di uno che apre. E' perciò con rammarico che apprendo della chiusura del Consorzio Doc Friuli Isonzo. Peccato.
La notizia, però, dovrebbe indurre a qualche riflessione: i tempi dei Consorzi-mamma, sotto le cui ali rassicuranti si rifugiavano tutti, grandi e piccoli indifferentemente, per banchettare alla tavola (più o meno lauta) di eventi e iniziative finanziate in gran parte dai soldi pubblici (=di noi tutti) sono finiti. I trasferimenti dalle Regioni si vanno assottigliando sempre di più, le casse consortili boccheggiano. Le quote associative che le aziende pagano non sono sufficienti per fare tutte quelle belle fiere, i viaggi all'estero, le degustazioni, gli incontri, le pubblicità sui (old) media ecc. ecc.?
Cari Consorzi, alzate le quote. Se le aziende vi percepiscono ancora come qualcosa a cui non possono rinunciare, accetteranno (sia pure obtorto collo) di fare qualche sacrificio in più. Ma si ribelleranno come bisce incavolate, se la percezione che hanno del loro Consorzio è quella di un carrozzone inchiodato a schemi di pensiero e di azione vecchi di vent'anni.
I Consorzi di Tutela devono cambiar pelle e ruolo, se vogliono sopravvivere, ma se le prime a non volere investire in essi e a percepirli ormai come corpi estranei sono le stesse aziende, allora - forse - è meglio chiudere che tirare avanti in qualche modo.
E dunque, le cantine in primis devono decidere a cosa tengono di più: al prestigio, alla salvaguardia e alla promozione della loro denominazione, o al loro brand? E' ovvio che quando un'azienda, a torto o a ragione, non si sente più rappresentata dal suo Consorzio, la tentazione di uscirne, voltargli le spalle e andare per la propria strada, è forte. A volte è perfino vincente. Ma di questi tempi, una scelta così richiede investimenti economici e/o know-how tutt'altro che alla portata di chiunque.
D'altro canto, la gestione di una denominazione (a meno che non si decida di rinunciare anche a quella) non è più cosa che possa ricadere unicamente sulle spalle dei produttori di vino. Perchè non ci sono solo loro: in un cosiddetto territorio vocato (e quelli del vino italiano lo sono tutti, vero?) si possono trovare anche strutture per l'ospitalità (b&b, agriturismi, ostelli, camping, hotel...), produzioni tipiche, e tutto il resto. Un sistema che dovrebbe funzionare come un orologio - e in qualche (raro) caso, di fatto ci riesce.
Ecco allora che la questione principale che si pone è la necessità di un cambio di cultura: gente, non siamo più negli anni '90. Smettetela di considerare il produttore vicino a voi come un concorrente, perchè alla luce degli attuali scenari produttivi e di mercato i veri concorrenti del vostro vino sono altri.
Quando si condivide uno stesso territorio, chi ci lavora e produce deve sentirsi moralmente in dovere di fare tutto quello che può per esaltarlo, difenderlo, comunicarlo.
Persone, vini, vitigni...tutto può spostarsi da un capo all'altro del pianeta.
Solo la terra resta dov'è.
E' patrimonio di tutti, e tutti devono farsene carico, nessuno escluso. Dal primo cittadino (detto anche sindaco) all'ultimo contribuente. Per un produttore agricolo, poi, il territorio è un elemento distintivo imprescindibile.
Spesso, anche il più invidiato.