Se non fosse una coincidenza si potrebbe pensare ad un segno del destino. In un momento in cui l’Italia prova a ripartire, un’ antica varietà del Sannio, da sempre sinonimo di festa, riceve l’OK del Comitato nazionale per la classificazione delle varietà di viti alla sua richiesta di iscrizione al Registro delle Varietà di viti. Tra poco perciò potremo salutare il riconoscimento ufficiale di una nuova stellina nel già ricco firmamento dei vitigni italiani. La dimostrazione che il patrimonio ampelografico nazionale è più ricco di quel che sembra e che le sorprese non sono (ancora) finite.
Benvenuta dunque a Camaiola, un’uva nera simbolo della viticoltura di Castelvenere, di cui si spera di poter sentire parlare sempre di più in futuro.
Il primo incontro - anzi, il primo assaggio - fu nel 2019, durante un breve ma intenso e bellissimo press tour organizzato dal Consorzio Tutela Vini dal Sannio. Nella ricca e quasi esaustiva degustazione di vini del Sannio (Falanghina, Aglianico, Greco, Fiano, Piedirosso, ecc.) ci presentarono anche questo curioso vino, tratto da una antichissima varietà all’epoca quasi scomparsa e nota fino a quel momento come Barbera del Sannio ma dai locali chiamata Camaiola.
Fu conquista al primo sorso: per il profumo di rosa, di piccoli frutti rossi maturi e dolci con accennati sentori di menta, per il gusto coerente e setoso, con tannini che scivolavano sullo sfondo. Un vino giovane, fresco, accattivante e godibile, con un grande potenziale di consumo presso quelle schiere di Gen-qualcosa varie e assortite sempre alla ricerca di alternative buone da bere, da chiacchierare, e perfino da fotografare.
Un vino da party, da allegria. Il vino ideale della ripartenza.
Il Camaiola, ci spiegarono, ufficialmente non viene lavorato in legno, né pare essere vino da invecchiamento. Perchè allora si chiama “Barbera”, dato che non sembra avere le caratteristiche di quel vitigno?
Negli anni Dieci del secolo scorso, visto il successo del Barbera piemontese, i campani decisero di chiamare con questo nome anche la loro uva rossa autoctona: un fraintendimento che in seguito l’Ispettorato agrario avallò, ovviamente confondendo l’uva campana con la cultivar piemontese* che pure era presente sul territorio.
Per anni questo vitigno fu utilizzato soprattutto nei blend grazie al suo potere colorante: il nome stesso, Camaiola, deriverebbe da una parola provenzale che si riferisce ad un’uva capace di “macchiare di nero”. In anni più recenti, con il miglioramento delle tecniche di produzione e vinificazione, un numero crescente di produttori ha deciso di darle le attenzioni che merita. Il risultato sono vini di un bel colore rosso scuro abbastanza fitto, di media struttura, molto profumati. Vini capaci di trasferire nel bicchiere le differenze di terroir senza mai però tradire il vitigno d’origine, che rimane sempre riconoscibilissimo. Ora, finalmente, potranno presentarsi ai mercati con il loro vero nome e aggregarsi al drappello di vini campani che parlano d’Italia al mondo.
*in effetti, la vera Barbera fu portata dai piemontesi quando anche in Campania arrivò la fillossera. Ora non é più diffusa, e anche Bonarda e Freisa sono state abbandonate.