Il museo dell'appassimento delle uve

Anno nuovo, tempo di ... enoiche anteprime.

Quasi in omaggio a un rigoroso ordine alfabetico, la prima anteprima (scusate il bisticcio di parole) in programma sul calendario delle manifestazioni italiche è quella dedicata all’Amarone.
La Valpolicella è forse la terra in cui la tecnica dell’appassimento ha raggiunto i livelli più alti: non solo in termini di quantitativi di uve messe ad appassire - nel 2009 sono stati 218.954 i quintali di uva ammessa alla produzione di Recioto e Amarone della Valpolicella, mentre le denunce di uva presentate per queste tipologie di vino sono state 1495 su 2463 complessive - ma anche di metodologie vere e proprie.

Per chi volesse farsi un’idea di come nel tempo si sono evoluti i diversi sistemi di messa a riposo dei grappoli, in quella che qualcuno ritiene essere oggi, con ogni probabilità, la miglior cantina sociale del Veneto, cioè la Cantina Valpolicella di Negrar, è presente una piccola ma interessante esposizione: il museo dell’appassimento. Uno spazio che lo stesso direttore generale ed enologo dell'azienda, Daniele Accordini, illustra in questa intervista video concessa al periodico Millevigne.

Nel museo sono riproposti i  sistemi che in passato - e in qualche raro caso, anche adesso - sono stati adottati per mettere a riposo le uve. Purtroppo, al momento l’esposizione è più coreografica che scientifico-didattica: non esiste un catalogo degli elementi esposti, nè viene suggerito un percorso di visita con un criterio cronologico. Però i sistemi ci sono tutti: si va dagli antichi picai (le lunghe cordicelle pendenti dalle travi del soffitto alle quali venivano legati i grappoli, uno per uno; un sistema ancora in uso in qualche azienda, e celebrato soprattutto nel Vicentino), alla distesa di uve per terra. Oppure alla loro sistemazione in ampie cassette in legno, o ancora sulle tradizionali arele (graticci in canne di bambù).

Queste ultime avevano una duplice funzione: quella di ospitare le uve in tempo di appassimento e i cavalieri (come venivano chiamati i bachi da seta) in tempo di allevamento. In passato infatti la povertà nelle aree rurali venete e veronesi in particolare, era tale che moltissimi contadini si dedicavano anche all’allevamento dei bachi da seta, le uova dei quali erano distribuite dal Consorzio agrario. Così, dopo aver ospitato i grappoli d’uva durante l’inverno, in primavera sulle arele venivano poste le foglie degli alberi di gelso (da queste parti detti morari) per nutrire i voracissimi bachi da seta. Quando poi questi si chiudevano nei bozzoli, erano pronti per essere riconsegnati al Consorzio, che li pagava in moneta sonante (come si legge in questa testimonianza).

Picai, cassette e arele a parte, in questo piccolo museo si trovano anche campioni di uve autoctone della Valpolicella rare e pressoché sconosciute, sia nere che bianche: un settore, questo della riscoperta e dello studio degli antichi vitigni, che questa cooperativa sta sviluppando negli ultimi anni in maniera importante, con ricerche sul campo ed esperimenti in cantina che stanno portando a risultati piuttosto interessanti.