Le donne nel mondo del vino italiano: una strada ancora in salita
Ci sono sempre più donne impegnate attivamente nel mondo del vino italiano. Sono produttrici, enologhe, agronome, ma più spesso sono ristoratrici, responsabili pr o dell’hospitality di una cantina, delle risorse umane, dell’enoturismo, dei wine shop, eccetera. Molti incarichi di relazioni, pochi di lavoro “fisico” in senso stretto. E ancora troppo poche manager, si tratti di istituzioni (come i Consorzi di Tutela) o grandi aziende. Le eccezioni non mancano, ma sono, appunto, eccezioni. Il mondo del vino italiano insomma è lontano dall’aver risolto il suo gender gap.
Lo dicono i primissimi risultati emersi da un’indagine condotta dall’Università di Siena in collaborazione con Le Donne del Vino e Unione Italiana Vini e presentata all’ultimo Wine2Wine, il Forum del wine business italiano tenutosi di recente a Verona. La sessione “Il futuro del vino è donna. Primi risultati di un’indagine sul gender gap delle aziende del vino in Italia” ha visto la ricercatrice Elena Casprini dell’Università di Siena spiegare che per questa indagine erano state selezionate 58 aziende italiane sparse in tutta Italia, tramite un questionario strutturato e validato da esperti del settore, da cui era poi stata tratta un’analisi qualitativa di 4 casi studio. Numeri molto piccoli se paragonati a quelli dichiarati dall’affollato panorama dell’industria italiana, ma comunque significativi di un modus operandi (e di pensiero) piuttosto diffusi. In sintesi, l’80% delle persone che lavorano nei servizi legati all’azienda vinicola (enoturismo, ristorazione, ecc) sono appunto donne, lo stesso dicasi per funzioni amministrative o commerciali. Certo, le responsabili di cantina e di campagna sono in aumento, ma sono ancora una minoranza. Il gender gap si fa ancora più evidente quando si tratta di salari (le paghe più basse sono sempre delle donne*) e di sostegno alla vita privata (leggi famiglia e maternità**): il 7,6% rinuncia ad un avanzamento di carriera quando arriva un bambino, o chiede il part time. Capitolo “abusi, intimidazioni, violenze”? Nell’ultimo triennio si è registrato un +6% di denunce. Una stima che tutti sappiamo essere in difetto.
Ovviamente non mancano i casi virtuosi (sempre troppo pochi), che sarebbe opportuno incentivare con apposite politiche fiscali come ha detto la produttrice (e presidente delle DDV) Donatella Cinelli Colombini, ma per iniziare a invertire la rotta sarebbe bene che tutte le aziende mettessero in atto poche semplici azioni, come ha suggerito Valentina Ellero dell’Osservatorio UIV: rispetto dei contratti di lavoro nazionali con monitoraggio costante dei lavoratori, attenzione alla comunità e soprattutto più formazione e informazione. Se non si cambia la cultura non si cambiano nemmeno le azioni. Perciò smettiamola di assumere le persone solo perché secondo una mentalità preistorica il loro sesso le rende “più adatte” a fare un lavoro piuttosto che un altro (“le donne sono più empatiche, più sensibili, gli uomini sono più pratici, meno pettegoli”, ecc.).
Competenze è la parola magica. Sono le competenze che devono fare la differenza, non il sesso. Quando finalmente si cominceranno ad assumere le donne basandosi innanzitutto sulle competenze che possono vantare, piuttosto che su ipotetiche caratteristiche temperamentali, si sarà fatto un altro passo in avanti verso una società non solo più inclusiva, ma soprattutto più adulta.
Il 6,7 delle donne guadagna meno di 1000 Euro/mese, contro il 3,8% degli uomini. Uno stipendio che superi i 3000 euro al mese ce l’ha solo 2,3% delle donne, contro il 7,9% degli uomini.
** Nessuna delle aziende interpellate dispone di strutture di supporto (come può essere un asilo nido) nelle sue vicinanze, anche perchè non potrebbe sostenerle economicamente.