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Brand o Doc nel futuro della TerradeiForti?

C'era una volta un vitigno sconosciuto perfino al catalogo nazionale delle varietà di vite perchè ormai nessuno si ricordava di lui. Un produttore del posto, memore di vendemmie della sua infanzia nelle quali anche quest'uva arrivava in cantina a carrettate, un giorno decise di recuperarlo e ridargli dignità. Ci mise vent'anni e un sacco di soldi, ma alla fine riuscì nell'intento.

Oggi il Casetta è un vino rosso a Doc della Valdadige (insieme al più noto Enantio).

Da n.0 barbatelle coltivate, a 40 mila bottiglie prodotte ogni anno, non si può non parlare di progresso. Per un'area produttiva dai connotati esistenziali e produttivi così sfumati come la Valdadige, la coppia Enantio e Casetta rappresenta un messaggio forte e chiaro. Due vini rossi che nascono da uve così autoctone da crescere solo qui.

Basta questo per tratteggiare la Valdadige- TerradeiForti agli occhi di consumatori ed enoturisti? ovviamente no. Occorre ben altro.

Ma cosa? 

Boh!

Tirati in ballo in una tavola rotonda dal coraggioso e ostinato produttore di cui sopra, Albino Armani, rappresentanti della produzione, delle istituzioni e delle banche di Veneto e Trentino - le due regioni che trovano nella Valdadige Terradeiforti la naturale cerniera dei rispettivi territori - hanno declamato, annunciato, dichiarato, riflettuto a voce alta, riempiendo la sala riunioni dell'azienda Armani di tanti buoni propositi (che non costano nulla)... e nessuna dichiarazione d'impegno concreto. 

L'intento di Albino era chiaro: mettersi attorno ad un tavolo, ragionare insieme e tirare fuori idee. Ora, è pur vero che in questo momento il Trentino ha qualcosina di più impellente e grave a cui pensare: ma è pur vero che la Doc Terradeiforti non esiste da ieri, e la Valdadige men che meno.

Perciò, si abbia una volta per tutte il coraggio di ammetterlo: esiste o non esiste una volontà comune di convergenza su qualche progetto di valorizzazione di questa terra di nessuno

Ebbene, questa volontà non c'è. Ad oggi non esiste. Il silenzio assordante di politici, istituzioni - al di la' della cortina fumogena di tanti discorsi -, l'apatia di gran parte della stessa base produttiva (se si esclude il lodevole, ma ahimè, insufficiente attivismo della Strada del Vino e del Consorzio) sono una risposta più che eloquente. 

Non ci sono idee. L'unica ipotesi concreta avanzata (dal moderatore dell'incontro, il collega giornalista enogastronomico Angelo Peretti), ovvero quella di agganciare la Valdadige TerradeiForti al sistema Lago di Garda, la prima terra italiana su cui si affacciano le grandi rotte che scendono dal Nord Europa, appare più come un suggerimento operativo e un auspicio, che come un progetto realizzabile a breve.

Il problema è che alla Valdadige mancano alcuni prerequisiti importanti per poter emergere in tempi ragionevoli dall'attuale stato semi-anonimato. 

Mancano molte infrastrutture; manca una cultura imprenditoriale reale nella classe dei produttori; manca un sentimento forte di identità territoriale. Manca l'entusiasmo.

E non c'è tempo per costruire l'orgoglio della Doc in una classe di viticoltori che non ha mai prodotto una bottiglia in vita sua, perchè vive ancora in larga parte di conferimenti alle cantine sociali. Non c'è tempo nemmeno di aspettare che qualche altra piccola, brava azienda abbia spalle abbastanza forti da farsi largo nel mondo.

Alla Valdadige serve un campione, un'azienda-testimonial. E le serve ora, subito.  Serve un brand già noto e apprezzato che in giro per il mondo parli di essa con i suoi vini, apripista di quelli (pochi) già pronti ad affrontare i mercati, e di quelli che in futuro (si spera) arriveranno. E non si creda che sia affare di poco: ci vorranno anni prima che al nome di quell'azienda e di certi suoi vini si associ automaticamente quello della TerradeiForti.

Per una volta, insomma, potrebbe essere il nome di un'azienda a trainare quello della sua Doc (cosa peraltro già verificatasi in altre zone): perchè una Doc piccola e sconosciuta non serve a nessuno, nemmeno a se stessa.  

Restano in sospeso ancora alcuni interrogativi: avrà voglia l'eventuale azienda testimonial di caricarsi di questa responsabilità?

Sapranno i produttori più dinamici e motivati seguire il suo esempio, e farsi a loro volta portabandiera della zona, una volta rotto il ghiaccio?

Sapranno le istituzioni sostenere gli sforzi di questi produttori? (non riescono a metterci le idee, che almeno ci mettano qualche soldo)

Domande, sempre domande...